Andrea Agnelli (foto Fanpage) |
L'antro da cui trasmette gli ultimi messaggi di lotta agli scherani che lo hanno seguito nella folle vicenda SuperLega è angusto, oscuro, lontano anni luce dal millantato splendore juventino.
Poteva organizzare con comodo una conferenza stampa nella sala dei trofei, seduto sulla poltrona familiare in pelle umana. Prendere il consueto giornalista-servo e usarlo come scendiletto per raccontargli che, in fin dei conti, dal suo pianeta lontano si sarebbe potuto far beffe di chi, ridendogli in faccia, lo aveva fatto diventare lo zimbello d'Europa suo malgrado, presunti amici e reali nemici. Invece, chissà perché, altro scivolone notturno, te lo ritrovi a giustificare bofonchiando le sue ragioni impettito in una trasmissione Skype che gli taglia la parte superiore della testa, con un collegamento sgranato che sembra fatto dalla camera da letto del figlio. Ci mancano le pantofole, la vestaglia e la canotta macchiata di sugo e il quadro da preoccupante diventerebbe deprimente. Voto alla comunicazione di uno dei manager considerati 'top-mondo' (espressione orrenda, ma per lui può anche passare): 2, pari solo alla scempiaggine con cui è stata condotta la vicenda SuperLega.
Sembra il dittatore dello Stato (poco) libero di Bananas e, solo per una manciata di secondi il 'prode' Massimo Gramelllini mi ha preceduto su un organo di informazione un filo più importante del mio "L'Urlo", citando la ridicola figura del generale Tejero che, una quarantina di anni fa, entrava agghindato come Arlecchino nel Parlamento spagnolo in un 'golpe' alla Woody Allen.
Ho il volume azzerato e, quindi, non posso ascoltare le parole di Agnelli, Si crea il ben noto 'effetto pesce' ma, francamente, non mi interessa, se ne sono sentite troppe di baggianate legate a questa competizione 'nata per fare il bene del calcio' e per onorare 'la passione dei tifosi'. Ecco, le parole 'calcio' e 'passione' non stanno proprio benissimo pronunciate da certi personaggi, quindi, tanto vale abbassare la (sua) voce. Che poi, dall'altra parte, non è che ci fosse di meglio e anche questa (pure qui mi vedo preceduto dal prode Gramellini) è cosa di non poco conto: essere riusciti a trasformare dei parassiti dello sport in filantropici baluardi decoubertiniani.
Quell'immagine di Agnelli, perenne imbronciato, bambino viziato abituato alle vittorie facili, baloccata attraverso un'intervista Skype, non rende giustizia alle miliardate spese dalla famiglia di cui porta il cognome per costruire una comunicazione degna di un club che avrebbe avuto l'ardire, e l'ardore, di rappresentare il calcio almeno entro (e non oltre) il 12° miglior livello assoluto.
Forse una società come l'Alcione (storica realtà che, nel calcio giovanile milanese, miete successi da anni) avrebbe fatto di meglio. E avrebbe potuto certamente, con più coerenza, legare il proprio nome alla parola 'passione'.