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sabato 15 maggio 2021

Colombia, tra violenza e crisi sociale

Le accese proteste per il progetto di riforma fiscale e la repressione da parte delle forze dell'ordine che ne è conseguita hanno portato la Colombia al centro dell’attenzione internazionale. Un’attenzione dovuta non solo al caos delle piazze colombiane, ma anche all’importanza di Bogotà nella regione.
Terzo Paese dell’America Latina per dimensioni demografiche (51 milioni di abitanti) e quarto per Pil assoluto dopo Brasile, Messico e Argentina, la Colombia è l’unica tra le maggiori economie dell’area a non essere stata coinvolta nelle crisi del debito estero degli anni ‘80. Prima del 2020 la Colombia aveva fatto registrare un solo anno di recessione dagli anni ‘30 in poi. Il calo del Pil nel 2020 è stato pesante (-6,8% rispetto al 2019), ma l’economia andina sarà tra quelle a più rapida ripresa di tutta l’area (+5,2% 2021 e +3,6% 2022 per il Fondo Monetario Internazionale - FMI).
La solidità e la capacità della Colombia di resistere a shock interni ed esterni hanno portato il Paese a diventare il 37esimo membro dell’OCSE ad aprile 2020. Per continuare a crescere a ritmi pari al potenziale - valutato tra il 3% e il 4% annuo - o, ancora meglio, per innalzarlo, il governo colombiano deve cercare di proseguire nel commitment fiscale e nel percorso di diversificazione economica cercando al contempo di salvaguardare la tenuta sociale del Paese.
Continua a leggere l'articolo di Davide Serraino su ISPI Online

lunedì 1 marzo 2021

Domenica di sangue in Myanmar: 18 morti

Una immagine delle proteste dal sito ISPI
Aung San Suu Kyi
, la ‘Lady’ del popolo birmano deposta da un colpo di stato militare lo scorso 1° febbraio, è comparsa per la prima volta in collegamento video dal luogo in cui si trova in detenzione. “Sta bene” ha detto il suo legale, dopo averle parlato, davanti al giudice che dovrà processarla. Si ritiene che sia detenuta nella capitale Naypyidaw, dove si sta svolgendo il processo, che la maggior parte della comunità internazionale ritiene una farsa.
Intanto nel Paese sale la tensione dopo settimane di proteste pacifiche e disobbedienza civile: nelle ultime ore polizia ed esercito hanno aperto il fuoco sui manifestanti, uccidendo 18 persone e ferendone altre 30. Proiettili, granate assordanti e gas lacrimogeni sono stati sparati contro manifestanti in diverse città, da Yangon a Dawei, Mandalay, Myeik, Bago e Pokokku, riferiscono le Nazioni Unite.
“Non pensavamo che avrebbero aperto il fuoco” hanno raccontato alla stampa i manifestanti, colti di sorpresa dall’improvvisa escalation di violenza. “Il Myanmar è un campo di battaglia” ha twittato il primo cardinale cattolico del paese a maggioranza buddista, Charles Maung Bo, condividendo la fotografia di una suora nello stato di Kachin che si è inginocchiata davanti a una fila di agenti di polizia, pregandoli di non aprire il fuoco.
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mercoledì 15 luglio 2020

Elezioni in Polonia, vince Duda e la linea di Visegrád

La prima pagina de "Il Corriere della Sera" di lunedì 13 luglio
Andrzej Duda ha vinto di misura, ma ha vinto. Un successo fondamentale che l'ha confermato presidente della Polonia.
Duda, esponente tipico del 'sovranismo' in stile Visegrad è stato rieletto al ballottaggio contro il sindaco di Varsavia, Rafał Trzaskowski, con il 51,2% delle preferenze, con lo sfidante fermatosi al 48,8% delle preferenze, una vittoria risicata come lo era stata quella precedente, ma con un numero di votanti nettamente superiore a favore del vincitore, quasi due milioni in più rispetto al 2015.
Un distacco minimo, racconta l'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), che ha tenuto la Polonia (e l’Europa) con il fiato sospeso, per quello che in molti hanno definito l’appuntamento politico più importante per il Paese dalla fine del comunismo. Un esito che riflette l’immagine di una nazione comunque divisa in due. Se l’ovest e le grandi città hanno votato in massa per l’europeista Trzaskowski, candidato della ‘Coalizione civica’ dei partiti liberali, le regioni rurali dell’est si sono confermate il bastione che ha consentito a Duda di ottenere la rielezione.
Per la commissione elettorale si è trattato delle elezioni più partecipate di sempre: al primo turno l’affluenza era stata del 63% degli aventi diritto, mentre ieri a recarsi ai seggi è stato il 68,8%. Un record storico, tra i più imponenti dal 1989.
Nonostante l’impatto economico del coronavirus, la ricetta conservatrice del presidente, formalmente indipendente ma sostenuto dai nazionalisti del Partito Diritto e Giustizia (PiS), fondato dai gemelli Kaczyński, che ha la maggioranza in Parlamento dal 2015, è riuscita a convincere ancora una volta gli elettori polacchi.
Forte di una campagna elettorale particolarmente aggressiva nei confronti della comunità LGBTQ, in nome della presunta difesa di “valori nazionali e cristiani” Duda ha fatto breccia nell’elettorato più conservatore delle regioni orientali e a maggioranza rurali. La mappa del voto ricalca quindi il profilo di un Paese diviso, con caratteristiche economiche, culturali e storiche diverse tra ovest ed est.
Dall'altra parte Trzaskowski incarnava la classicia figura filoeuropeista e progressista, tanto cara ai magnati di Bruxelles, che sino alla fine hanno incrociato le dita sperando nella vittoria del loro candidato prediletto, fautore di una linea durissima verso la Russia.
La rielezione di Duda costituisce un'importante vittoria per il partito di governo (PiS). L’ordinamento polacco, infatti, assegna al Capo dello Stato un veto forte e ora l’esecutivo non ha più motivo di temere ostacoli alle riforme che più volte lo hanno posto in rotta di collisione con le istituzioni di Bruxelles. Se l'opposizione controlla ancora il Senato, infatti, la Camera Bassa (Sejm) può ribaltare le obiezioni mosse dai senatori e a quel punto solo un veto presidenziale ha il potere costituzionale di bloccare l’iter legislativo.
Durante una campagna elettorale dai toni particolarmente accesi, il leader del PiS, Jaroslaw Kaczynski – considerato da molti il leader de facto del paese –, ha suggerito che il Governo potrebbe mettere sotto controllo i media stranieri, troppo critici nei confronti dell’esecutivo.
Per la prima volta dal 1989, i due candidati alla presidenza non hanno partecipato ad alcun dibattito televisivo in comune. Incapaci di convenire su un’unica emittente, boicottandosi e rinfacciandosi l’un l’altro di intervenire solo in trasmissioni di parte, Duda e Trzaskowski hanno evitato ogni confronto diretto davanti alle telecamere.
Da parte degli sconfitti ci sono state le classiche accuse di irregolarità del voto. In molti hanno lamentato di non aver ricevuto le schede elettorali per tempo e di non essere riusciti a votare. In totale si tratta di circa mezzo milione di elettori, il cui voto però difficilmente avrebbe potuto ribaltare la situazione.
Matteo Tacconi, giornalista, commenta: "Il voto conferma che la Polonia è spaccata. Quasi due paesi in uno. Duda è prevalso nelle aree rurali, con percentuali molto alte nella fascia est del territorio. Il suo bacino elettorale corrisponde alla Polonia più conservatrice, più influenzata dalla chiesa cattolica, più scettica verso l’Europa e più lenta, a livello di passo economico. Al contrario, Trzaskowski ha vinto nelle regioni dell’ovest e in tutte le grandi città: Varsavia, Cracovia, Danzica, Poznan, Breslavia. La Polonia che lo ha votato è quella parte di Paese più prospero, più aperto verso l'Europa e i suoi paradigmi liberali. Il voto regionale si conferma un ottimo filtro per capire il quadro politico polacco e la sfida tra le due 'tribù' – populisti e liberali – che si contendono il paese da 15 anni".
Prosegue Tacconi: "A proposito di città, il prossimo obiettivo dei populisti e di Duda, fautori di un potere centrale forte, potrebbero essere i poteri dei sindaci. Diritto e Giustizia (PiS) controlla parlamento, presidenza, magistratura, radio-tv di Stato. A livello locale, però, non riesce a sfondare nelle grandi città. Sono tutte a trazione liberale. Da cui questa ipotesi, per ora un 'rumor', sul taglio del potere dei sindaci. Cosa che viene portata avanti, proprio ora, nell’Ungheria Viktor di Orban, a cui le leadership polacca in parte si ispira".

L'articolo di "Libero"

L'articolo de "Il Manifesto"

L'articolo de "La Repubblica"

L'articolo de "La Verità"

mercoledì 1 luglio 2020

Polonia, Duda vince il primo turno elettorale ma non basta

Andrzej Duda, è lui il volto della Polonia antiglobalista
La Polonia alle urne vedrà, dopo la prima tornata elettorale, un ballottaggio a decidere il vincitore delle elezioni e nuovo presidente, che uscirà dalla sfida del 12 luglio fra il premier uscente, il sovranista Andrzej Duda, che ha ottenuto una importante maggioranza (43,6%), e il capo dell’opposizione, l'europeista sindaco di Varsavia, Rafał Trzaskowski, che non è andato oltre il 30% dei consensi.
E', come sempre, l'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) a forgiare un'attenta analisi della situazione.
Dietro alla coppia di testa, staccatissimo, al terzo posto con il 13,3%, il candidato indipendente Szymon Hołownia, e il nazionalista Krzysztof Bosak con il 7,4%.
Rinviate a causa dell’epidemia di coronavirus, le elezioni presidenziali avrebbero dovuto svolgersi lo scorso maggio. Allora Duda volava alto nei sondaggi e il governo aveva provato a fare di tutto per mantenere immutato il calendario elettorale, compreso ipotizzare un voto postale dell’ultimo minuto. Il rinvio era stato infine deciso quando Porozumienie, un partito minore della coalizione di maggioranza, aveva denunciato, assieme all’opposizione, come il partito PiS stesse, a loro dire, mettendo la politica davanti alla salute pubblica.
Le elezioni di domenica hanno registrato il più alto livello di affluenza nella storia delle presidenziali polacche, con una partecipazione di oltre il 63% dei votanti. Un dato che supera di molto il 49% delle presidenziali del 2015, e un segno di come la polarizzazione degli ultimi cinque anni abbia mobilitato i sostenitori di entrambi gli schieramenti politici. Nel complesso si tratta però di un risultato deludente per Duda, che fino a due mesi e mezzo fa sarebbe probabilmente riuscito a farsi riconfermare al primo turno.
Rafal Trzaskowski, 48enne liberale, sta cercando di sfruttare l'onda lunga di chi sta cercando di contrastare le riforme volute dal PiS. I punti centrali della sua strategia sono la lotta al sovranismo e il mantenimento di una linea dura verso la Russia. Nel discorso successivo al voto del primo turno ha affermato: “I risultati di stanotte mostrano una cosa importante: il 58% della società polacca vuole un cambiamento. Lo dirò chiaramente a tutti voi: sarò io il vostro candidato. Sarò io il candidato del cambiamento”.
Duda, dal canto suo, sta cercando di compattare la base elettorale tradizionalista e cattolica, attaccando così la comunità LGBTQ, che ha definito un’ideologia “ancor più distruttiva del comunismo”.
La scorsa settimana, Duda è stato il primo leader europeo a recarsi in visita a Washington. Dalla Casa Bianca il presidente Donald Trump ha elogiato il suo operato e ipotizzato di redistribuire in Polonia le truppe americane di stanza in Germania, di cui il presidente ha annunciato il ritiro. Un endorsement in piena regola a pochi giorni dal voto.
Da lontano, l'Europa targata Bruxelles osserva con il fiato sospeso lo scontro tra forze populiste e liberali in seno al paese più importante dell'Europa centro-orientale, cosciente che se avvenisse qui, il cambio di passo avrebbe eco ben oltre i confini nazionali.
In Europa, infatti, il PiS ha cercato – spesso insieme all’Ungheria di Victor Orbàn – di frenare sia le riforme alle politiche migratorie che la “carbon tax”. Il governo di Varsavia descrive le istituzioni comunitarie come una 'nuova forza di occupazione', anche se la Polonia è il principale beneficiario netto di aiuti allo sviluppo europei. (fonte: ISPI)
Leggi anche:
India e Cina, sanguinosi scontri sul confine himalayano
Serbia, le elezioni incoronano 're' Vucic

L'articolo de "Il Giornale"

L'articolo de "Il Corriere della Sera"

mercoledì 24 giugno 2020

Serbia, le elezioni incoronano 're' Vucic

Il volto di Aleksandar Vucic accanto ai risultati elettorali
Proseguono le interessanti analisi di politica internazionale da parte dell'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) di Milano. Questa volta, nella newsletter dell'istituzione di Palazzo Clerici, sono state trattate le ultime elezioni politiche in Serbia, che hanno visto stravincere il Partito Progressista Serbo (Sns) del presidente Aleksandar Vucic.
“Abbiamo vinto dappertutto”, ha dichiarato Vucic, descrivendo in modo abbastanza corretto l’esito delle prime votazioni post-pandemia che si sono svolte in Europa. A scrutinio quasi ultimato, il suo partito progressista (Sns) avrebbe ottenuto il 63% delle preferenze, portando a casa 187 seggi del parlamento su 250. Un aumento di 83 seggi rispetto alla precedente legislatura. Al secondo posto, con grande distacco e circa il 10% dei voti a favore, il Partito socialista serbo (Sps), alleato al governo con il Sns, e al terzo (col 4%) “SPAS”, l’Alleanza patriottica, formazione di centro-destra. Poiché nessun altro partito ha superato lo sbarramento del 3% il prossimo parlamento sarà dunque privo di un’opposizione, eccezion fatta per i rappresentanti delle minoranze che siedono di diritto nell’Assemblea e su cui non si applica la soglia di sbarramento. Un’anomalia che è anche la naturale conseguenza del boicottaggio elettorale del fronte anti-Vucic, riunito nella coalizione Alleanza per la Serbia (SzS) che da mesi denuncia la decadenza della democrazia serba e delle condizioni di voto, e il controllo assoluto esercitato dal partito di Vucic su ogni ambito della vita pubblica del paese.
Gli appelli dell’opposizione a boicottare il voto e a chiedere riforme hanno portato solo parzialmente i loro frutti: l’affluenza ai seggi non ha superato il 49% degli aventi diritto, in calo rispetto al 56,7 delle ultime elezioni del 2016. “Le persone sono state contattate ad una ad una per votare, messe sotto pressione, minacciate, eppure tutto ciò non è bastato per raggiungere un'affluenza superiore al 50%”, ha affermato Dragan Djilas, uno dei leader dell'Alleanza per la Serbia, definendo il boicottaggio “un successo”. Ma a prescindere dagli appelli al boicottaggio, a pesare sarebbe stato anche il timore dei contagi. La Serbia conta 12.894 casi di contagio e 261 morti a fronte di una popolazione di circa 7 milioni di abitanti. I numeri sembrano destinati a risalire, in virtù anche della scarsa informazione che il governo ha fornito ai cittadini e della mancanza di divieti sugli assembramenti. Con l’1,8% dei voti, non ha superato la soglia di sbarramento neanche il Movimento dei cittadini liberi (Psg), partito di opposizione guidato da uno dei leader di spicco delle proteste di piazza che per tutto il 2019 e l’inizio del 2020 si sono tenute ogni settimana nel paese, l’attore Sergej Trifunovic. Resta fuori anche il Partito radicale serbo, formazione nazionalista guidata dal criminale di guerra Vojislav Seselj.
Tra i primi a congratularsi con Vuvic per la vittoria, Victor Orban ha postato su Instagram una foto dei due che si stringono la mano. Il mese scorso, nella sua classifica sullo stato di salute della democrazia nel mondo, la Freedom House aveva rivisto al ribasso lo status della Serbia ponendo il paese allo stesso livello dell’Ungheria, tra i ‘regimi ibridi’. Eppure, complimenti per la vittoria sono arrivati anche dal commissario europeo per l'allargamento Olivér Várhelyi, che su Twitter ha commentato che non vede l'ora di aiutare la Serbia ad “avanzare rapidamente verso l'adesione all'Ue”. In molti, tra i commentatori, gli hanno fatto notare che difficilmente la “nuova” assemblea serba potrà collaborare al processo di adesione.
È un sostegno più o meno esplicito, quello delle istituzioni di Bruxelles al governo che da 8 anni guida la Serbia, che segue il criterio della ‘stabilocrazia’: sostenere regimi illiberali – in particolare nella regione balcanica – fintanto che questi mantengono un orientamento pro-europeo e garantiscono stabilità e continuità di governo.
Nonostante abbia tradito le promesse relative alle riforme e a mantenere senza oscillazioni la rotta del paese verso l’Unione Europea, Vucic appare agli occhi di Bruxelles come l’unico leader capace di garantire una soluzione alla questione del Kosovo, e il processo di normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina mediato dall’Ue dal 2013 è in stallo dal 2018. Di recente, Vucic e il presidente della ex provincia, indipendente dal 2008, Hashim Thaci, sembrano sostenere informalmente la proposta di una ridefinizione delle frontiere: il nord del Kosovo, abitato in maggioranza da serbi, andrebbe a Belgrado e tre villaggi serbi, abitati prevalentemente da albanesi, passerebbero a Pristina. Uno scambio di territori, che sembra avere la benedizione dell’inviato speciale di Donald Trump, l’ambasciatore Richard Grenell, che ha convocato entrambi i leader per sabato prossimo a Washington, ma che non convince l’Europa, cosciente che la firma di un accordo da sola non basta a garantire la pace e la stabilità della regione balcanica. Anche se ormai il percorso sembra tracciato. Secondo Mediapart, Vucic era in cerca di un plebiscito prima di avviare i negoziati, “in modo da avere le mani libere”. Ora, sembra cosa fatta.
Giorgio Fruscione, ISPI Research Fellow, commenta: “La democrazia serba da oggi entra in un baratro da cui difficilmente saprà uscire. Dopo anni di totale controllo su media, istituzioni e governo, ora il partito di Vucic controlla la quasi totalità del parlamento. Una situazione che è addirittura peggiore di quella del regime di Slobodan Milosevic, da cui i cittadini serbi si ribellarono e liberarono vent’anni fa”. E ancora: “All’epoca c’era un’opposizione, che oggi rimane invece alla porta; e soprattutto allora le istituzioni occidentali denunciavano l’autoritarismo e la mancanza di stato di diritto. Ora invece Belgrado gode del supporto dell’UE, che è stata incapace di produrre risultati concreti anche nel dialogo con Pristina, e che ora passa nelle mani della Casa Bianca. Sia la democrazia che la stabilità a livello regionale si allontanano ulteriormente dai Balcani”. (fonte: ISPI)

Leggi anche: India e Cina, sanguinosi scontri sul confine himalayano

giovedì 18 giugno 2020

India e Cina, sanguinosi scontri sul confine himalayano

Una cartina dell'area incriminata
India e Cina una contro l'altra, in uno scambio armato 'caldo', che ha provocato decine di morti lungo il confine himalayano. L'argomento è stato approfondito dall'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) di Milano, che, in una sua newsletter, ha riepilogato i fatti.
I soldati indiani uccisi dai militari cinesi sarebbero almeno 20, negli scontri avvenuti nella regione del Ladakh: si tratta dell'incidente più grave dal 1975 nel territorio conteso, fra le catene del Karakorum e dell’Himalaya.
In un primo momento si era parlato di tre soldati uccisi ma il bilancio è stato aggiornato dopo che altri 17 militari indiani sono morti in seguito alle ferite riportate.
La tensione tra i due giganti asiatici è alle stelle e il ministro degli Esteri indiano ha accusato Pechino di avere volontariamente violato un accordo raggiunto nelle ultime settimane, in cui le due potenze si impegnavano a rispettare la ‘Linea attuale di controllo’ (Lac) nella valle di Galwan, a circa 4000 metri sul livello del mare.
Pechino ha prima accusato i militari indiani di avere provocato l’incidente attraversando il confine e poi buttato acqua sul fuoco concordando sulla necessità di "calmare le tensioni" il prima possibile. Entrambe le parti avevano confermato che non c’è stato scontro a fuoco tra i militari e che i decessi sarebbero stati causati da scontri con pietre e bastoni.
La frontiera tra India e Cina non è un confine netto. Lungo gli oltre 3400 chilometri in comune, molte sono le zone contese e quelle teatro di scontri sporadici in cui i soldati si ritrovano spesso faccia a faccia. La divisione tra i due paesi, tracciata dagli inglesi nell’Ottocento, non è mai stata accettata né dalla Cina né dall’India. Dopo l’indipendenza, nel 1947, l’India rivendicò alcuni dei territori che i cinesi non avevano abbandonato, tra cui la valle di Galwan, teatro di schermaglie dalla fine degli anni Cinquanta. Nel 1962 un confine semi-ufficiale, la Linea attuale di controllo (Lac), fu stabilito dai due paesi che da allora si incontrano periodicamente per discutere la questione delle frontiere ma senza aver mai raggiunto un accordo. Lo scontro riguarda anche la costruzione di infrastrutture, strade, aeroporti e ferrovie, che potrebbero facilitare l’invio di rinforzi in caso di conflitto. Negli ultimi cinquant’anni, tuttavia, le schermaglie tra i militari dei due fronti non avevano provocato vittime. Fino a ieri.
Le tensioni nella zona hanno cominciato a riaccendersi agli inizi di maggio, con dei tafferugli tra i militari indiani e cinesi nei pressi del lago Pangong Tso. In quell’occasione alcune centinaia di soldati dei due fronti si erano tirati sassi e picchiati a bastonate sulle montagne tra il Ladakh, sotto il controllo indiano, e l'Aksai Chin, amministrato da Pechino e reclamato da New Delhi. Nelle settimane successive, la Cina aveva dispiegato migliaia di soldati lungo il confine, alimentando i timori di un blitz per prendere il controllo di alcune aree contese. L'incidente di ieri, oltre a minare il quinto ciclo di incontri ‘pacificatori’ tra le due potenze nucleari, riaccende i riflettori sul confronto armato per la supremazia di una regione, quella himalayana, contesa anche dal Pakistan, che controlla l'Azad Kashmir con l'appoggio politico e militare della Cina, interessata a portare avanti il ‘Corridoio economico Cina-Pakistan’ tra lo Xinjiang e il porto di Gwadar sul Mare arabico, fiore all’occhiello della Nuova via della Seta.
Una nota di Pechino pubblicata poche ore fa sembra confermare quello che gli osservatori più attenti dicono da giorni: Cina e India non vogliono che la crisi degeneri in un conflitto. I motivi sono diversi e tutti quanti validi. Intanto perché si tratta delle uniche due economie asiatiche che secondo le previsioni chiuderanno l’anno in positivo, e una guerra pregiudicherebbe la loro crescita già fortemente segnata dalla pandemia. Pechino poi, si trova alle prese con un nuovo focolaio di Coronavirus nella capitale, la gestione delle proteste a Hong Kong e le rinnovate tensioni nord coreane. Inoltre – fermo restando le dispute di confine – il commercio bilaterale con New Delhi è aumentato di 67 volte tra il 1998 e il 2012 e la Cina è il principale partner commerciale dell'India. Gli studenti indiani si riversano nelle università cinesi ed entrambe le parti tengono esercitazioni militari congiunte. “Né il Primo Ministro Narendra Modi né il Presidente Xi Jinping vogliono una guerra” dice al New York Times Ashley J. Tellis, “ma nessuno dei due può rinunciare alle proprie rivendicazioni territoriali”. Certo, se dietro lo scontro non si nasconde una volontà bellica ora si tratta di trovare una via d’uscita ‘onorevole’ per le parti in gioco. Il difficile sarà farlo davanti ad opinioni pubbliche nutrite da anni di retorica identitaria e sovranista, su cui entrambi i leader hanno costruito la propria scalata al potere.
A corredo della vicenda il commento di Nicola Missaglia, ISPI Research Fellow: "La Cina e l’India che da mezzo secolo litigano per un confine conteso non sono più quelle di una volta. Non ci sarà una guerra - prosegue Missaglia -, ma questa escalation è diversa delle tante schermaglie a cui i due giganti emergenti che un tempo disponevano di mezzi e risorse simili ci avevano abituati. Oggi siamo di fronte al corpo a corpo violento tra una superpotenza autoritaria in ascesa, la Cina, e una superpotenza democratica nascente, l’India, che malgrado la sua ovvia inferiorità economica e militare rimane pur l’unica nella regione in grado di contestare le ambizioni di Pechino".
Il docente dell'ISPI parla poi del collegamento fra la vicenda e il coronavirus: "La pandemia apre una stagione di nuove incertezze per l’una e per l’altra, ma soprattutto per due nazionalismi che hanno riposto una buona porzione della propria legittimità nelle prospettive di crescita economica messe in crisi dal Covid. Solo che la Cina oggi vede la luce in fondo al tunnel, mentre l’India è ancora in mezzo al guado con pochissimo margine di manovra. Un conflitto vero e proprio ora non conviene a nessuno: ma per Xi c’è forse momento migliore di questo per ricordare al grintoso avversario chi è il più forte? È il ritorno della hard geopolitics". (fonte: ISPI)

L'articolo de "Il Corriere della Sera"

L'articolo de "Il Giornale"