Il volto di Aleksandar Vucic accanto ai risultati elettorali |
“Abbiamo vinto dappertutto”, ha dichiarato Vucic, descrivendo in modo abbastanza corretto l’esito delle prime votazioni post-pandemia che si sono svolte in Europa. A scrutinio quasi ultimato, il suo partito progressista (Sns) avrebbe ottenuto il 63% delle preferenze, portando a casa 187 seggi del parlamento su 250. Un aumento di 83 seggi rispetto alla precedente legislatura. Al secondo posto, con grande distacco e circa il 10% dei voti a favore, il Partito socialista serbo (Sps), alleato al governo con il Sns, e al terzo (col 4%) “SPAS”, l’Alleanza patriottica, formazione di centro-destra. Poiché nessun altro partito ha superato lo sbarramento del 3% il prossimo parlamento sarà dunque privo di un’opposizione, eccezion fatta per i rappresentanti delle minoranze che siedono di diritto nell’Assemblea e su cui non si applica la soglia di sbarramento. Un’anomalia che è anche la naturale conseguenza del boicottaggio elettorale del fronte anti-Vucic, riunito nella coalizione Alleanza per la Serbia (SzS) che da mesi denuncia la decadenza della democrazia serba e delle condizioni di voto, e il controllo assoluto esercitato dal partito di Vucic su ogni ambito della vita pubblica del paese.
Gli appelli dell’opposizione a boicottare il voto e a chiedere riforme hanno portato solo parzialmente i loro frutti: l’affluenza ai seggi non ha superato il 49% degli aventi diritto, in calo rispetto al 56,7 delle ultime elezioni del 2016. “Le persone sono state contattate ad una ad una per votare, messe sotto pressione, minacciate, eppure tutto ciò non è bastato per raggiungere un'affluenza superiore al 50%”, ha affermato Dragan Djilas, uno dei leader dell'Alleanza per la Serbia, definendo il boicottaggio “un successo”. Ma a prescindere dagli appelli al boicottaggio, a pesare sarebbe stato anche il timore dei contagi. La Serbia conta 12.894 casi di contagio e 261 morti a fronte di una popolazione di circa 7 milioni di abitanti. I numeri sembrano destinati a risalire, in virtù anche della scarsa informazione che il governo ha fornito ai cittadini e della mancanza di divieti sugli assembramenti. Con l’1,8% dei voti, non ha superato la soglia di sbarramento neanche il Movimento dei cittadini liberi (Psg), partito di opposizione guidato da uno dei leader di spicco delle proteste di piazza che per tutto il 2019 e l’inizio del 2020 si sono tenute ogni settimana nel paese, l’attore Sergej Trifunovic. Resta fuori anche il Partito radicale serbo, formazione nazionalista guidata dal criminale di guerra Vojislav Seselj.
Tra i primi a congratularsi con Vuvic per la vittoria, Victor Orban ha postato su Instagram una foto dei due che si stringono la mano. Il mese scorso, nella sua classifica sullo stato di salute della democrazia nel mondo, la Freedom House aveva rivisto al ribasso lo status della Serbia ponendo il paese allo stesso livello dell’Ungheria, tra i ‘regimi ibridi’. Eppure, complimenti per la vittoria sono arrivati anche dal commissario europeo per l'allargamento Olivér Várhelyi, che su Twitter ha commentato che non vede l'ora di aiutare la Serbia ad “avanzare rapidamente verso l'adesione all'Ue”. In molti, tra i commentatori, gli hanno fatto notare che difficilmente la “nuova” assemblea serba potrà collaborare al processo di adesione.
È un sostegno più o meno esplicito, quello delle istituzioni di Bruxelles al governo che da 8 anni guida la Serbia, che segue il criterio della ‘stabilocrazia’: sostenere regimi illiberali – in particolare nella regione balcanica – fintanto che questi mantengono un orientamento pro-europeo e garantiscono stabilità e continuità di governo.
Nonostante abbia tradito le promesse relative alle riforme e a mantenere senza oscillazioni la rotta del paese verso l’Unione Europea, Vucic appare agli occhi di Bruxelles come l’unico leader capace di garantire una soluzione alla questione del Kosovo, e il processo di normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina mediato dall’Ue dal 2013 è in stallo dal 2018. Di recente, Vucic e il presidente della ex provincia, indipendente dal 2008, Hashim Thaci, sembrano sostenere informalmente la proposta di una ridefinizione delle frontiere: il nord del Kosovo, abitato in maggioranza da serbi, andrebbe a Belgrado e tre villaggi serbi, abitati prevalentemente da albanesi, passerebbero a Pristina. Uno scambio di territori, che sembra avere la benedizione dell’inviato speciale di Donald Trump, l’ambasciatore Richard Grenell, che ha convocato entrambi i leader per sabato prossimo a Washington, ma che non convince l’Europa, cosciente che la firma di un accordo da sola non basta a garantire la pace e la stabilità della regione balcanica. Anche se ormai il percorso sembra tracciato. Secondo Mediapart, Vucic era in cerca di un plebiscito prima di avviare i negoziati, “in modo da avere le mani libere”. Ora, sembra cosa fatta.
Giorgio Fruscione, ISPI Research Fellow, commenta: “La democrazia serba da oggi entra in un baratro da cui difficilmente saprà uscire. Dopo anni di totale controllo su media, istituzioni e governo, ora il partito di Vucic controlla la quasi totalità del parlamento. Una situazione che è addirittura peggiore di quella del regime di Slobodan Milosevic, da cui i cittadini serbi si ribellarono e liberarono vent’anni fa”. E ancora: “All’epoca c’era un’opposizione, che oggi rimane invece alla porta; e soprattutto allora le istituzioni occidentali denunciavano l’autoritarismo e la mancanza di stato di diritto. Ora invece Belgrado gode del supporto dell’UE, che è stata incapace di produrre risultati concreti anche nel dialogo con Pristina, e che ora passa nelle mani della Casa Bianca. Sia la democrazia che la stabilità a livello regionale si allontanano ulteriormente dai Balcani”. (fonte: ISPI)
Leggi anche: India e Cina, sanguinosi scontri sul confine himalayano