Il professor Camaggio davanti agli 'alumni' (foto Bordignon)
Nella splendida cornice di Villa Clerici, a Milano, si è svolta la prima 'reunion' degli 'alumni' del Master International Business in China, realtà sviluppatasi
nell'ambito dei corsi di approfondimento organizzati dalla LUM, la Libera Università Mediterranea.
Quello dedicato agli 'alumni' del master è il primo di una serie di incontri per promuovere l'associazione che rappresenta l'insieme delle persone laureate in LUM o che in
questa università abbiano conseguito dei diplomi in master universitario, oltre 9mila ex studenti, che già hanno saputo creare un networking e una rete internazionale che
ha visto molti laureati e diplomati intraprendere la propria attività all'estero e, per coloro usciti dal Master International Business in China, nel grande Paese asiatico.
Alla presenza del rettore, il professor Antonello Garzoni, e del coordinatore scientifico del master, il professor Gianpaolo Camaggio, gli 'alumni' hanno raccontato le
proprie esperienze, italiane ed estere, ma tutte ad alti livelli professionali.
Durante la giornata è stata anche presentata la settima edizione del master che, anche in questa edizione, si svolgerà in lingua inglese e a Villa Clerici, e durerà da
gennaio a giugno, in quattro moduli di lezioni frontali e focus ben definiti come il 'luxury and fashion' e l'evoluzione tecnologica, tenendo conto delle specificità del
mercato cinese, soprattutto in chiave digitale, con la formazione di giovani professionisti che si sono inseriti facilmente in ambienti direttivi e dirigenziali di varie
realtà italiane e anche asiatiche.
E' il rumla nuova 'via della seta' che unisce il filo sottile che lega Taiwan alla Lituania, uno dei pochissimi Paesi a intrattenere relazioni con la nazione che rimane l'antitesi della Cinacomunista.
Il governo di Taipei ha infatti acquistato
20.400 bottiglie di rum dalla Lituania, dopo il boicottaggio di
fatto imposto dalla Cina alle aziende lituane nell'ambito di uno
scontro diplomatico per l'uso del nome Taiwan nell'ufficio di
rappresentanza aperto a novembre da Taipei a Vilnius,
considerato di fatto la sua ambasciata. Il carico, ha annunciato
la compagnia statale di alcol e tabacchi di Taiwan (TTL), è
stato ordinato dopo aver appreso che era stato bloccato da
Pechino. "La Lituania ci sostiene e noi sosteniamo la Lituania.
TTL invita a brindare a questo", ha dichiarato la compagnia in
una nota, citata dal South China Morning Post.
Da quando Vilnius ha annunciato di voler creare
reciprocamente uffici diplomatici con Taiwan, Pechino ha
lanciato una serie di rappresaglie commerciali. Il presidente
lituano Gitanas Nauseda ha tuttavia affermato che aver
usato il nome Taiwan nella sede istituita a Vilnius è stato un
"errore", sottolineando di non esserne stato informato. (fonte: ANSA)
La pop star di Hong Kong e alcuni giornalisti locali sono stati arrestati dalle autorità governative comuniste.
I giornalisti, sei, erano ex dipendenti della testata
locale "Stand News" e sono stati fermati con l'accusa di "pubblicazione sediziosa".
Un reporter dell'agenzia AFP ha visto il caporedattore del giornale, Patrick Lam, che veniva condotto in manette nell'edificio
dove ha sede la testata.
"Stand News" è la seconda testata giornalistica di Hong Kong
presa di mira dalla polizia di sicurezza nazionale, dopo "Apple
Daily", che ha chiuso nel mese di giugno dopo che le autorità avevano
congelato i suoi beni secondo una legge di sicurezza nazionale
imposta da Pechino per frenare il dissenso.
Anche la pop star locale DeniseHo, che aveva fatto parte, fino a novembre, del consiglio di amministrazione della pubblicazione, è stata arrestata. Gli arresti sono stati trasmessi tramite una diretta Facebook e sono avvenuti prima dell'alba, con gli ufficiali che hanno detto al viceredattore Ronson Chan di avere un mandato per indagare sulle accuse di "cospirazione per pubblicazioni
sediziose" e che Chan doveva smettere di filmare. Fra gli altri arrestati
l'avvocato ed ex legislatrice Margaret Ng e l'ex
caporedattore di "Stand News", Chung Pui-kuen. (fonte: AGI)
Lei si chiama Viya Huang (o Huang Wei, in cinese 黄薇), ed è una delle più importanti 'influencer' cinesi, nota in particolare per i suoi 'streaming' su Taobao Live, programmi di 'teleshopping'. Il governo della Cina ha deciso di condannarla per evasione fiscale con una multa gigantesca di 1,3 miliardi di
yuan (181 milioni di euro). Colpirne uno per educarne cento, una frase che, fra l'altro, arriva proprio da quelle latitudini, e che si può ben adattare alla situazione, visto che Pechino ha concesso dieci
giorni alle varie celebrità internet per mettersi in
regola con l'amministrazione fiscale.
Il presidente Xi Jinping, nel mese di agosto, ha esortato alla
"prosperità comune" e ha promesso un "adeguamento" dei redditi
eccessivi. Un messaggio inteso come monito verso alcuni eccessi rilevati in alcuni settori, Fra cui 'showbiz' e internet,
accusati di offrire "stipendi da capogiro".
"Le star dello spettacolo, i livestreamer e altri personaggi
pubblici devono rispettare rigorosamente le disposizioni della
legge fiscale", hanno ricordato gli uffici delle imposte,
compresi quelli di Pechino e Shanghai.
"E' dovere di ogni cittadino pagare le tasse", è stato ribadito, lasciando alle varie 'celebrities' locali tempo fino "alla fine dell'anno" per adeguarsi, minacciando sanzioni pesanti.
Viya è scomparsa dai principali 'social' del Paese a partire dal 21 dicembre, il
giorno dopo la sua condanna per evasione fiscale. (fonte: ANSA-AGI-AFP)
Gabrielius Landsbergis con Svetlana Thykanovskaya (foto da Twitter)
Davide contro Golia, una volta di più. La piccola Lituaniasi schiera a fianco dell'altrettanto piccola Taiwan, di cui osa sostenere le ragioni contro la potente Cina, nei confronti della quale i 'nuovi' potenti Stati Uniti di Joe Biden, mai così deboli, hanno deciso di inchinarsi su quasi tutta la linea.
Il Paese baltico, infatti, dal 1990 nuovamente indipendente, ha di recente consentito alla Repubblica Democratica cinese (così si chiama ufficialmente, con magno disdoro di quella... Popolare) di aprire un
ufficio di rappresentanza a proprio nome. Non solo, sempre il governo di Vilnius ha deciso di accogliere sul proprio
territorio Svetlana Thykanovskaya, leader dell'opposizione
bielorussa che aveva sfidato il dittatore Alexander Lukashenko
alle contestate elezioni presidenziali dello scorso anno. Giusto per fare incazzare, oltre ai cinesi, pure i russi, che di Lukashenko sono simpatici 'amici'.
Ed è lo stesso ministro
degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, a dichiarare come la Lituania stia mostrando al
mondo un modo reale per resistere alla crescente pressione della Cina,
diversificando le catene di approvvigionamento e lavorando a
fianco delle altre democrazie.
Durante una visita a Washington, Landsbergis ha affermato di
avere parlato con alti funzionari statunitensi degli sforzi della
Lituania per ridurre la dipendenza dalla Cina per le forniture e
ha chiesto sforzi a lungo termine per aiutare le altre nazioni
ad affrontare simili pressioni. "Penso che la più grande
lezione della Lituania sia che la coercizione economica non
significhi necessariamente che un Paese debba allontanarsi da
decisioni di politica estera indipendenti", ha detto Landsbergis
alla France Presse, "probabilmente sarai minacciato, verrai
sgridato nei titoli dei media cinesi, ma ciò nonostante, puoi
resistere". Mentre le nazioni autoritarie parlano del fallimento
della democrazia, "devo dire che l'unica debolezza delle
democrazie è non essere in grado di aiutarsi a vicenda", ha
aggiunto il ministro lituano.
La Lituania, retta da un governo conservatore, come la maggioranza delle nazioni, riconosce solo
la Cina e non Taiwan, una democrazia autogovernata che Pechino
considera una provincia in attesa di riunificazione. Vilnius ha
permesso però a Taiwan di aprire un ufficio nella capitale a
proprio nome (oltre ad aver bandito Huawei dalla sua rete 5G), portando la Cina a declassare i legami sia
diplomatici che commerciali con lo Stato baltico. Una rappresaglia che rafforza la percezione che lo strumento principale
della Cina "non è la diplomazia" ma "la posizione di potere e
coercizione nei confronti delle nazioni", ha osservato
Landsbergis. "I Paesi sentono che c'è questa spada invisibile
di Damocle appesa sopra le loro teste" se contrariano la Cina,
ha concluso il ministro. (fonte: AGI) Leggi l'articolo de "Linkiesta": "La lezione della Lituania al resto del mondo su come si trattano i regimi"
Evergrande, è crisi totale (foto da Investire Oggi)
Il gigante immobiliareChina Evergrandeha sospeso le negoziazioni delle sue azioni alla
borsa di Hong Kong senza fornire alcuna motivazione. Il prezzo
delle azioni della società, sull'orlo del collasso e sommersa da
una montagna di debiti, è crollato di circa l'80% dall'inizio
dell'anno. Sospesa anche la quotazione di
Evergrande Property Sevices. L'unità di auto elettriche del
gruppo, China Evergrande New Energy Vehicle Group è, invece,
ancora quotata, e dopo i primi scambi perde il 4,3%.
(fonte: AGI)
La 'libera scelta' del popolo afghano: una fuga disperata
Appaiono senza vergogna le prime dichiarazioni della Cinadopo le prime immagini della fuga disperata di decine di migliaia di persone dall'Afghanistan, con Kabul invasa dai talebani, mentre gli americani hanno preferito levare le tende in fretta e furia a seguito dell'a precipitosa decisione di Joe Biden.
Secondo Pechino, infatti, la situazione in Afghanistan "ha subito grandi cambiamenti e - si sottolinea in una nota - rispettiamo desideri e scelte del popolo afghano". La guerra, ribadisce la portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying, "dura da oltre 40 anni: fermarla e raggiungere la pace non è solo la voce unanime degli oltre 30 milioni di afghani, ma anche l'aspettativa comune di comunità internazionale e Paesi regionali".
Pechino nota che ieri (domenica 15 agosto, ndr) i talebani "hanno affermato che la guerra è finita e che negozieranno un governo islamico aperto e inclusivo, oltre a
intraprendere azioni responsabili per garantire la sicurezza di cittadini afghani e missioni straniere". Ecco, arrivare a parlare di 'governo inclusivo' (termine che oggi va molto di moda e che piace sciorinare molto al 'bel mondo' della Sinistra) a fianco della parola 'talebani' fa capire con quali 'mostri' dell'informazione si abbia quotidianamente a che fare.
La locandina dell'evento cui ha preso parte Luc Montagnier
E' arrivato in Italia Luc Montagnier, nel più totale disinteresse della stampa schierata, ovvero quella stragrande maggioranza di giornalisti 'servi' della monocultura globalista espressa dal governo italiano schiavo dell'Europa schiava a sua volta dei 'poteri forti' e via di questo passo. Un Montagnier che, guarda caso, rappresenta una delle pochissime voci critiche nei confronti dei vaccini. Premio Nobel per la medicina scopritore del virus dell'HIV e presidente della fondazione mondiale per la ricerca e prevenzione dell'AIDS, il professore di Chabris non è proprio l'ultimo dei pirla. Ma della sua presenza in terra italiana, a Firenze, su invito dell'organizzazione no-profit Atto Primo: Salute Ambiente Culturanon viene riportata traccia sui media. Quegli stessi media che da tempo si sono preoccupati di screditare qualsiasi sua possibile affermazione potesse le verità inconfutabili provenienti dalla comunità scientifica incaricata di 'normalizzare' la conoscenza legata al Covid-19, escludendo ogni riferimento a un diretto coinvolgimento della Cina, stretta compagna di viaggio di gran parte delle pseudo potenze occidentali. Il 21 aprile 2020 "La Stampa", uno dei principali organi di regime, titolava con sicumera: "Coronavirus, la comunità scientifica demolisce le tesi di Montagnier sul Covid-19 creato in laboratorio" (leggi l'articolo). Su Montagnier, prima ancora dell'esplosione del Coronavirus, si era esercitata anche "La Repubblica" nel 2017, con un titolo ancora più incisivo: "Dal Nobel alle bufale, il declino di Luc Montagnier: scoprì il virus Hiv, ora è no-vax" (leggi l'articolo). Una posizione, quella sull'origine artificiale del Covid, cui poi alla fine ci si è dovuti inchinare, come sostiene la dottoressa Silvana De Mari sul quotidiano "La Verità", del cui articolo riporto uno stralcio nell'immagine qui sotto. Montagnier, a Firenze, come si legge sull'organo ufficioso di informazione online Imolaoggi.it ha parlato dei rischi dei vaccini anti-covid: “un’operazione di marketing che impedisce di concentrarsi sulle cure migliori”. Nell'articolo di Valentina Rebecca Soluri si legge anche: "nel corso della conferenza stampa è stato più volte ribadito che le associazioni coinvolte e il Professor Montagnier non intendono assumere una posizione “no vax” ma vogliono piuttosto contestare l’obbligatorietà del trattamento, sulla base della dichiarata mancanza di studi sperimentali che ne possano garantire efficacia e sicurezza e nell’attuale assenza di dati replicabili sugli effetti di breve, medio e lungo periodo, soprattutto sui giovani e sulle generazioni future". Peccato non esserci stati. Peccato che la maggioranza dei media abbia ignorato la notizia.
La ripresa 2021 comincerà e si consoliderà ad Est. La convinzione – se non unanime, quasi – degli investitori sembra essere supportata da una serie di fattori, come l’avanzamento della campagna vaccinale in molti Paesi dell’area asiatica e la ripresa dei consumi. Ma quando si parla di Asia non si può prescindere dalla Cina, le cui previsioni ufficiali di crescita hanno spiazzato più di un osservatore. “Il fatto che il governo cinese, nel giorno dell’inaugurazione del Congresso Nazionale del Popolo di venerdì scorso, abbia fissato un nuovo target di crescita sopra al 6% per il 2021 ha fatto sorgere più domande che risposte – osserva David Rees, senior emerging markets economist di Schroders -. Tale obiettivo è inoltre ben distante dalle nostre stime che prevedono un aumento del Pil pari al 9%. Una crescita attorno al 6% implicherebbe un brusco tightening delle politiche quest’anno, anche se finora non ci sono stati molti segnali in tal senso. Supponiamo che la crescita sarà ben superiore e che le autorità stiano tentando di limitare le aspettative di lungo termine. In ogni caso, i mercati finanziari raramente si sono focalizzati sulle stime ufficiali di crescita, a causa dei timori riguardo alla loro accuratezza, e hanno invece reagito tendenzialmente di fronte a indicatori ciclici, come impulso al credito e aggregati monetari”. “Quindi – fa notare Rees -, a meno che la politica monetaria non venga inasprita notevolmente, cosa che non è ancora avvenuta, o che le autorità non intervengano pesantemente sui dati, la crescita del Pil sarà probabilmente maggiore rispetto al 6% quest’anno. Di conseguenza, per il momento manteniamo invariate le nostre stime sulla crescita cinese”. Leggi l'articolo completo, di Elena Scudieri, su FocusRisparmio
Dimenticare l'anno del Covid e di tante tragedie, quello di cui tanti non hanno potuto festeggiare la fine, o l'hanno festeggiata da soli, o per colpa del lockdown o per via delle perdite subite in questo maledetto 2020 appena terminato. Dal 2021 che va a cominciare ci si aspetta tanto, forse non tutto, ma di certo un passo importante che ci riporti verso la normalità, quell'agognato 'status' negatoci d quei governi che hanno preferito chinare il capo di fronte al virus, di fronte a chi l'ha diffuso, la Cina, trovando in esso anzi, un insperato quanto inatteso laboratorio per creare, ancora più velocemente, una quiescenza da parte della nuova plebe, nei confronti di un ordine mondiale gestito da un nucleo sempre più ristretto di persone a scapito di una grande immaginaria. George Orwell e "1984", Ridley Scott e "Blade Runner", il Medioevo del Futuro, come lo chiamavo nei miei temi da 13enne, è arrivato, come le campane a morto. Sta a rompere il cerchio, contrattaccare il mondo di coloro che ci vogliono tutti tristemente eguali, in fila, condannati dietro ai nuovi computer. Che il 2021 risvegli le nostre coscienze, ci riporti nelle strade, sporchi e peccatori, ma certi di essere uomini. Anarchici e nel caos. Ma liberi.
Un italiano su due è pronto a denunciare il vicino di casa se solo penserà o, comunque, sospetterà, che non si stia attenendo alle regole imposte dal Governo in tema di lotta al Coronavirus. Non è un caso che tutto ciò, ovvero la realizzazione dell'agognato sogno prospettato dal socialismo, ovvero dividere e distruggere l'umanità attraverso la paura, parta proprio daun virus diffuso dalla Cina, tuttora regina di un mondo comunista mai sepolto, e ancora in grado di farsi strada in maniera vincente attraverso le maglie della globalizzazione, riuscendo perfino a umiliare le proprie vittime: dopo averle 'infette', ecco infatti che la Cina stipula con l'Europa (o meglio, con i suoi rappresentanti) un importantissimo accordo commerciale, autentico schiaffo in faccia alla 'nuova' America di Joe Biden. Fatevi avanti dunque, spie e delatori, l'orrore dipinto da George Orwell è ormai calato fra noi.
Cani in gabbia in Cina (immagine tratta da Internet)
I comunisti non solo mangiano i bambini (che, in senso lato, è pur vero, visto le stragi di innocenti con cui hanno brutalizzato il mondo fin dal secolo scorso), ma si
cibano anche di centinaia di migliaia di cani, altrettanto innocenti.
Succede a Yulin, in Cina, in pieno contagio da Coronavirus, in cui da domenica ha preso il via l'11.a edizione della fiera della carne di cane, che durerà fino al 30 giugno.
Sarà per l'ennesima volta, fra le proteste di tutto il mondo, l'ennesima mattanza del 'migliore amico dell'uomo' ucciso nei modi più brutali dal 'peggiore amico
dell'uomo'.
Il tutto nonostante il divieto delle autorità e l'esclusione dalla lista degli animali commestibili pubblicata dal ministero dell'agricoltura cinese ad aprile, con ampia
diffusione sui quotidiani internazionali della notizia.
Il sito "Sussidiario.net" scriveva nel 2018: "Come ogni anno, nella città del Guangxi, inizia oggi un evento, o meglio, una strage, che dura dieci giorni, e che porta alla morte di migliaia di cani. Nello stato cinese parlano di tradizione, ma in realtà sarebbe una semplice fiera a scopi commerciali. A segnalare lo scempio, Humane Society International, che si batte ormai da anni contro questo festival dell’orrore, e che con il passare del tempo ha acquisito sempre più partner, nuovi attivisti che si sono opposti fermamente alla mattanza". E ancora: "Pare infatti che il governo si sia impegnato a fare chiudere il festival di Yulin, e la polizia è presente sul luogo, pattugliando i mercati e vietando la vendita di carne di cane. Peccato però che i controlli siano presenti solamente nella via principale, visto che in quelle laterali la mattanza sta continuando".
Considerazione personale. Vi invito a fare sentire la Vostra Voce protestando presso il sito dell'Ambasciata Cinese in Italia: https://www.facebook.com/chineseembassyitaly.
India e Cinauna contro l'altra, in uno scambio armato 'caldo', che ha provocato decine di morti lungo il confine himalayano. L'argomento è stato approfondito dall'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) di Milano, che, in una sua newsletter, ha riepilogato i fatti.
I soldati indiani uccisi dai militari cinesi sarebbero almeno 20, negli scontri avvenuti nella regione del Ladakh: si tratta dell'incidente più grave dal 1975 nel territorio conteso, fra le catene del Karakorum e dell’Himalaya.
In un primo momento si era parlato di tre soldati uccisi ma il bilancio è stato aggiornato dopo che altri 17 militari indiani sono morti in seguito alle ferite riportate.
La tensione tra i due giganti asiatici è alle stelle e il ministro degli Esteri indiano ha accusato Pechino di avere volontariamente violato un accordo raggiunto nelle ultime settimane, in cui le due potenze si impegnavano a rispettare la ‘Linea attuale di controllo’ (Lac) nella valle di Galwan, a circa 4000 metri sul livello del mare.
Pechino ha prima accusato i militari indiani di avere provocato l’incidente attraversando il confine e poi buttato acqua sul fuoco concordando sulla necessità di "calmare le tensioni" il prima possibile. Entrambe le parti avevano confermato che non c’è stato scontro a fuoco tra i militari e che i decessi sarebbero stati causati da scontri con pietre e bastoni.
La frontiera tra India e Cina non è un confine netto. Lungo gli oltre 3400 chilometri in comune, molte sono le zone contese e quelle teatro di scontri sporadici in cui i soldati si ritrovano spesso faccia a faccia. La divisione tra i due paesi, tracciata dagli inglesi nell’Ottocento, non è mai stata accettata né dalla Cina né dall’India. Dopo l’indipendenza, nel 1947, l’India rivendicò alcuni dei territori che i cinesi non avevano abbandonato, tra cui la valle di Galwan, teatro di schermaglie dalla fine degli anni Cinquanta. Nel 1962 un confine semi-ufficiale, la Linea attuale di controllo (Lac), fu stabilito dai due paesi che da allora si incontrano periodicamente per discutere la questione delle frontiere ma senza aver mai raggiunto un accordo. Lo scontro riguarda anche la costruzione di infrastrutture, strade, aeroporti e ferrovie, che potrebbero facilitare l’invio di rinforzi in caso di conflitto. Negli ultimi cinquant’anni, tuttavia, le schermaglie tra i militari dei due fronti non avevano provocato vittime. Fino a ieri.
Le tensioni nella zona hanno cominciato a riaccendersi agli inizi di maggio, con dei tafferugli tra i militari indiani e cinesi nei pressi del lago Pangong Tso. In quell’occasione alcune centinaia di soldati dei due fronti si erano tirati sassi e picchiati a bastonate sulle montagne tra il Ladakh, sotto il controllo indiano, e l'Aksai Chin, amministrato da Pechino e reclamato da New Delhi. Nelle settimane successive, la Cina aveva dispiegato migliaia di soldati lungo il confine, alimentando i timori di un blitz per prendere il controllo di alcune aree contese. L'incidente di ieri, oltre a minare il quinto ciclo di incontri ‘pacificatori’ tra le due potenze nucleari, riaccende i riflettori sul confronto armato per la supremazia di una regione, quella himalayana, contesa anche dal Pakistan, che controlla l'Azad Kashmir con l'appoggio politico e militare della Cina, interessata a portare avanti il ‘Corridoio economico Cina-Pakistan’ tra lo Xinjiang e il porto di Gwadar sul Mare arabico, fiore all’occhiello della Nuova via della Seta.
Una nota di Pechino pubblicata poche ore fa sembra confermare quello che gli osservatori più attenti dicono da giorni: Cina e India non vogliono che la crisi degeneri in un conflitto. I motivi sono diversi e tutti quanti validi. Intanto perché si tratta delle uniche due economie asiatiche che secondo le previsioni chiuderanno l’anno in positivo, e una guerra pregiudicherebbe la loro crescita già fortemente segnata dalla pandemia. Pechino poi, si trova alle prese con un nuovo focolaio di Coronavirus nella capitale, la gestione delle proteste a Hong Kong e le rinnovate tensioni nord coreane. Inoltre – fermo restando le dispute di confine – il commercio bilaterale con New Delhi è aumentato di 67 volte tra il 1998 e il 2012 e la Cina è il principale partner commerciale dell'India. Gli studenti indiani si riversano nelle università cinesi ed entrambe le parti tengono esercitazioni militari congiunte. “Né il Primo Ministro Narendra Modi né il Presidente Xi Jinping vogliono una guerra” dice al New York Times Ashley J. Tellis, “ma nessuno dei due può rinunciare alle proprie rivendicazioni territoriali”. Certo, se dietro lo scontro non si nasconde una volontà bellica ora si tratta di trovare una via d’uscita ‘onorevole’ per le parti in gioco. Il difficile sarà farlo davanti ad opinioni pubbliche nutrite da anni di retorica identitaria e sovranista, su cui entrambi i leader hanno costruito la propria scalata al potere.
A corredo della vicenda il commento di Nicola Missaglia, ISPI Research Fellow: "La Cina e l’India che da mezzo secolo litigano per un confine conteso non sono più quelle di una volta. Non ci sarà una guerra - prosegue Missaglia -, ma questa escalation è diversa delle tante schermaglie a cui i due giganti emergenti che un tempo disponevano di mezzi e risorse simili ci avevano abituati. Oggi siamo di fronte al corpo a corpo violento tra una superpotenza autoritaria in ascesa, la Cina, e una superpotenza democratica nascente, l’India, che malgrado la sua ovvia inferiorità economica e militare rimane pur l’unica nella regione in grado di contestare le ambizioni di Pechino".
Il docente dell'ISPI parla poi del collegamento fra la vicenda e il coronavirus: "La pandemia apre una stagione di nuove incertezze per l’una e per l’altra, ma soprattutto per due nazionalismi che hanno riposto una buona porzione della propria legittimità nelle prospettive di crescita economica messe in crisi dal Covid. Solo che la Cina oggi vede la luce in fondo al tunnel, mentre l’India è ancora in mezzo al guado con pochissimo margine di manovra. Un conflitto vero e proprio ora non conviene a nessuno: ma per Xi c’è forse momento migliore di questo per ricordare al grintoso avversario chi è il più forte? È il ritorno della hard geopolitics". (fonte: ISPI)
Mancano poche ore alla cosiddetta Fase 2, e le città italiane si preparano a quello che sarà un probabile 'assalto alla diligenza' da parte degli oltre quattro milioni di italiani che torneranno al lavoro, che dovranno affannarsi, rigorosamente distanziati, su autobus, tram e metropolitane nella vana speranza di non giungere in ritardo al proprio primo giorno di lavoro.
Il sindaco Giuseppe Sala è una persona intelligente, ma prigioniera di quella demagogia che ha spinto a votarlo chi l'ha scelto come 'primo cittadino' di Milano. Quell'universo fatto di Sinistra finto progressista, cattocomunisti residenti nel centro cittadino, radical chic vari, universitari mantenuti, qualche genuina anima semplice, il tutto mischiato a rabbrividenti rappresentanti dei Centri Sociali, che dal sindaco 'pinko' (espressione usata in maniera dileggiante nei confronti del radicalismo chic dal commentatore televisivo canadese Don Cherry) hanno evidentemente pensato (senza venire smentiti) di poter ottenere spazio e protezione.
E così, a fronte di una situazione drammatica, che dovrebbe vedere nell'uso dell'automobile il sistema più sicuro per evitare contatti e contagi con il virus, ecco che Sala, e il suo fido assessore Marco Granelli, hanno deciso di proseguire nella loro scellerata politica delle due ruote, costruendo piste ciclabili a ripetizione, con un ritmo tanto folle quanto folle sia l'idea che una bicicletta possa sostituire in città un mezzo a motore, degna soltanto di chi abbia nella Cinail proprio punto di riferimento.
Oltre 20 chilometri di piste ciclabili costruite sotto il nostro naso, approfittando della quarantena cui siamo stati condannati, stravolgeranno e violenteranno la mobilità milanese. Tanto più vista la più che ridotta disponibilità di trasporto dei mezzi pubblici.
Si prevedono così lunghe file in attesa, strade congestionate, litigi e risse per salire per primi sul mezzo pubblico in arrivo, una guerra fra poveri di cui il sindaco e i suoi accoliti non hanno evidentemente tenuto conto, collusi con quella ristretta enclave di fortunati colpevoli di averlo votato, con attico in Centro e colf in arrivo dalla periferia, cui forse avranno il buon cuore di concedere un quarto d'ora di ritardo. Per questa volta.
Un altro articolo sul tema da "Il Sole 24 Ore" del 30 aprile
Un articolo de "Il Giornale" del 3 maggio
Ancora un articolo del 3 maggio, sempre da "Il Giornale"
Arriva dai Paesi anglosassoni, Stati Uniti in testa, una sempre più pesante accusa verso la Cina per la diffusione del Coronavirus. Proprio nelle ultime ore è stato Mike Pompeo, segretario di Stato americano, ad affermare come il Covid-19 sia un prodotto di laboratorio e non, come affermato finora dall'OMS e dalla gran parte dei virologi, una causale trasmissione avvenuta tra uomo e animale.
Le prime accuse 'internazionali' erano arrivate già nella giornata di sabato, attraverso un dossier dei cosiddetti Five Eyes, ovvero un'allenza di agenzie segrete composta composta dagli 007 di Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada e Nuova Zelanda, in cui si affermava come il governo di Pechino avesse cercato di insabbiare quel che accadde all'inizio dell'epidemia, puntando inoltre sulle "rischiose" metodologie utilizzate in un laboratorio di Wuhan.
Nel testo dei Five Eyes si parla di "attacco sulla trasparenza internazionale". Inoltre, i Servizi ricordano come, fino al 20 gennaio, la Cina avesse smentito che il virus si potesse trasmettere fra gli esseri umani, quando in realtà vi sarebbero state già a inizio dicembre chiare evidenze in proposito. Fra le altre accuse, quella di aver distrutto prove di laboratorio e di aver messo sotto controllo le pubblicazioni degli scienziati sul Covid-19.
Questa domenica Mike Pompeo, segretario di Stato statunitense, ci è andato giù in maniera ancora più dura. "Il coronavirus arriva dal laboratorio di Wuhan", ha detto senza mezzi termini. In un'intervista all'emittente ABC, il segretario di Stato Usa ha parlato di "enormi prove" a disposizione: "Noi sosteniamo dall'inizio che il virus è originato lì. Ora l'intero mondo può vederlo". La Cina, ha rincarato la dose Pompeo nell'intervista, "ha fatto di tutto per assicurarsi che il mondo non sapesse del virus in modo tempestivo. Questo è un classico tentativo di disinformazione comunista". Pechino, ha incalzato ancora, "ha agito come fanno i regimi autoritari", scatenando così "una crisi enorme".
Ma guarda un po', forse la storia del Coronavirus creato in laboratorio non era una 'fake new'. Come in tanti avevano ipotizzato fin dall'inizio, del resto, idea rafforzata dopo la comparsa del famoso video-servizio del Tg3 Leonardo, in cui si parlava di un virus creato in un laboratorio, guarda caso, di Wuhan.
Subito etichettati come complottisti, questa manica di italiani creduloni ha però trovato una serie di alleati ben più quotati e credibili. Fra questi il generale Mark Milley, Chairman of the Joint Chiefs of Staff USA, che ha sottolineato come i servizi segreti americani stiano dando "un'occhiata seria all'ipotesi laboratorio".
E, anche se la notizia si dovesse rilevare infondata, il solo prenderla in considerazione le ridà credibilità e veridicità, rifilando l'ennesimo colpo duro alla politica, ai media e agli scienziati italiani che, preda di un incomprensibile attacco di 'normalizzazione orwelliana', si erano dati molto da fare nel bollare come priva di senso qualsiasi teoria che colpevolizzasse il governo cinese, riducendo a 'fake news' l'ipotesi del 'virus scappato casualmente'. Anzi, fu proprio pochi giorni dopo la diffusione del famoso video del Tg3 che venne costituita la pericolosa "unità anti fake news" del governo italiano, voluta (anche qui, guarda caso) dalla Sinistra e gestita in via esclusiva da personaggi legati al mondo della Sinistra.
Non sono solo però solo esponenti del governo statunitense, quello del 'cattivissimo' Donald Trump, a riposizionare la Cina sul banco degli imputati. Sulla gestione del virus in Cina "sono successe cose che non sappiamo", ha sentenziato il presidente francese Emmanuel Macron. E da Londra gli ha fatto eco il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab, che ha ribadito che, quando tutto sarà passato, la Cina dovrà rispondere a "domande difficili" su "come tutto questo sia accaduto" e "come non si sia potuto fermarlo prima". Tutto questo mentre l'Italia continua a incensare la Cina e i suoi tardivi ipocriti aiuti, mentre media ed esponenti politici italiani cercano di minimizzare e filtrare l'informazione libera, mentre quelli medici rischiano di subire l'ennesima smentita, dopo quelle sulla validità delle mascherine, sulla permanenza del virus in aria, sulla presenza dello stesso sotto le scarpe e tante altre. Ogni ipotesi torna valida, quelle 'sensazioni' legate al buon senso che avevano tormentato i normali cittadini non erano poi così sballate, malgrado le rassicurazioni subdole fornite da una classe dirigente centralizzata, legata a doppio filo con l'OMS, quella che non ha saputo evitare la strage di decine di migliaia di morti che ha colpito l'Italia.
Sabato 22 novembre, alle ore 19.30, verrà proiettata al Gogol Ostello di via Chieti 1, Milano, la 'prima' di "La Cina è lontana", cortometraggio realizzato sullo stile della docufiction che analizza la realtà dei giovani cinesi residenti a Milano, in un confronto fra l'Italia di oggi e la Cina di ieri.
Realizzato in collaborazione con Matteo Bergamini, responsabile del Laboratorio dell'Immagine del Politecnico di Milano, "La Cina è lontana" vede la regia di Ottavia Costanza e la presenza di alcuni giovani e talentuosi attori fra cui Laura Serena, Tommaso Pagliarini e Riccardo Pumpo.