Usi e costumi di un popolo cialtrone, quello italiano. Il popolo dei ‘furbi’ e dei furbetti, ma che riesce a sputtanarsi per molto meno. Prendete l’inno nazionale, suonato durante la presentazione di Lazio-Sampdoria, al momento di scena all’Olimpico, finale di Coppa Italia: un evento, una di quella serate che in altre nazioni, basta salire di latitudine, sarebbero state occasione di festa, di incontro, magari scambi di sciarpe, foto davanti al Colosseo con i tifosi delle due squadre a passare comunque una giornata indimenticabile. Chissà perché mi vengono in mente i tifosi del Celtic a Siviglia quando, nella finale di Coppa Uefa, poi persa con il Porto, invasero festosamente la città e, malgrado il ko, se ne andarono nel giubilo. Sia ben chiaro, a me dell’inno frega poco assai, la Patria con la ‘P’ maiuscola mi ricorda tanto gli uomini con i baffoni alla Dorando Pietri alle Olimpiadi di Londra, però c’è il rispetto, o meglio, manca il rispetto per un sentire comune, per un reciproco volersi bene, per non fare la solita figura barbona che l’Italia si è francobollata addosso dal suo ingresso (e prima ancora) in Europa. Beh, ma perché sto sproloquiando? Perché, al solito, eppure ho avuto ancora la forza di sorprendermi, durante l’inno italiano nel prepartita, ognuno dei 65 mila presenti ha cantato quel che ha voluto, per un gran baccano fatto di insulti, bestemmie, e mischiato nel frastuono, pure qualche volonteroso propenso all’amor di patria.
Una bella figuraccia, per un paese che ha bisogno di ‘serrare’ i tifosi in trasferta in apposite gabbie, perché sono troppo ‘bestie’ per essere lasciati liberi, quando in un qualsiasi temutissimo Celtic-Rangers, guerra di religione autorizzata, ognuno dei tifosi dà di faccia al campo senza alcuna limitazione tranne quella della propria educazione. E’ un po’ lo stesso discorso dei ‘minuti di (non) silenzio’ che, in quasi tutte le parti d’Italia, si trasformano regolarmente in lunghi applausi perché, quando superiamo, noi italiani, le cinque persone di numero, non siamo capaci di stare muti ma, come tanti pecoroni, abbiamo sempre bisogno di quel ‘fastidioso’ commento in più. E’ in questi casi soprattutto, non in altri tanto sbandierati dai giornali, che spesso mi vergogno di essere italiano, popolo un tempo di santi, navigatori ed eroi, ora più spesso di cialtroni sguaiati a caccia del proprio quarto d’ora di gloria, magari attraverso un provino in tivù.