I tre protagonisti di "Tin Star" |
Eppure, malgrado tutto il male che se ne possa dire, si tratta di una serie a tratti quasi divertente, da seguire tutta d’un fiato e che, dopo una prima stagione partita benissimo e proseguita con qualche dubbio, nella seconda si era pericolosamente afflosciata per poi ritrovare ritmo e suspence nella terza.
“Tin Star” è una serie sciaguratamente folle e priva di senso, sceneggiata da un autore in evidente stato di alterazione psichica. La si potrebbe definire una via di mezzo fra un'opera 'pulp' e una 'fantasy', con uno humour forzato che, in certi passaggi, potrebbe far tornare alla memoria “Fargo”, ma che di quest’ultima non possiede la stessa potenza e credibilità.
Ci sono dei cattivi ‘cattivissimi’ di cui però si conosce molto poco, senza antefatti né vissuto. Lo stesso personaggio interpretato da Roth, Jack Devlin (che poi si scoprirà essere tale Jack Worth), comincia il trittico di stagioni come padre di una famiglia felice e le termina come assassino spietato, che peraltro coinvolge moglie e figlia nella propria follia omicida e nichilista.
Soprattutto nella terza stagione, l’ansia omicida che pervade tutti (e si sottolinea ‘tutti’) i protagonisti prevale sulla trama, lasciandosi sopraffare da incomprensibili paradossi. E così si mischiano matrimoni con il sorriso a omicidi di preti sfigurati, gente gettata casualmente dalla finestra a simpatiche bevute nei pub di Liverpool, famiglie distrutte senza pietà ne remora alcuna a trenini carichi di bimbi che calano nel pieno di festini che riempiono case dove scorrono alcol e droga.
In tutto ciò, il finale, totalmente privo di logica, dona almeno coerenza all'incoerenza e al teatrino dell’assurdo costruito in tutte le puntate precedenti.
Applausi, ovviamente, per Tim Roth, in versione ‘hooligan’ della vita, affiancato dalla ‘famiglia’, composta da Genevieve O’Reilly e Abigail Lawrie, per un trittico tutto britannico che, soprattutto nella terza serie, ambientata nella Merseyside (con tanto di colonna sonora adeguata, da Gerry and the Pacemakers a Echo and the Bunnymen), rende credibile almeno l’ambiente circostante, una Liverpool persa fra violenza e povertà.
Tre stagioni (2017-2020), probabilmente, sono potute bastare. Anzi, forse sono state fin troppe. (fonte: Milano Reporter)